mercoledì 17 luglio 2013

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[precede] ricordo l’arresto come tanto brutto, anche se ora, mentre scrivo, è sorprendentemente difficile pensarci. Noi tutti rimanemmo sull’autobus e decidemmo degli arresti di solidarietà – ovvero, che nessuno sarebbe stato libero finché tutti non fossero stati liberi. Ci rifiutammo pure di scendere dall’autobus finché la polizia non avesse esaudito la nostra richiesta di farci stare tutti insieme. Le prime due ore erano anche divertenti, e sembravano più una gita scolastica frocia che altro. Noi cantavamo canzoni froce ai pulotti e ci baciavamo davanti a loro. Dirigere un autobus pieno di gente facendole cantare Lumberjack Song [YouTube, Wiki] dei Monty Python fu uno dei miei momenti migliori quel giorno. Noi usavamo i cellulari per leggere le notizie su di noi in Internet. Ridevamo al modo in cui i notiziari ci descrivevano, e ci arrabbiammo per la risposta di CAG (sono passati alla storia dicendo: “Non abbiamo niente a che fare con quegli anarchici da Tel Aviv”). Parlavamo, ridevamo, eravamo seduti ed aspettavamo.

Ma, con il passare delle ore, il senso di soffocamento e di strettezza dell’autobus diventava sempre più insopportabile per tutti. Le persone divenivano sempre più stanche e meno pazienti. Litigai con il mio partner, il che a ripensarci lo ritengo la prima crepa nella nostra relazione – una crepa che, sei mesi dopo, avrebbe portato alla rottura. Poiché ci rifiutavamo di scendere dall’autobus, non potevamo nemmeno andare al bagno. Non c’erano né cibo né acqua, dacché a nessuno era venuto in mente di portarne, ed ai poliziotti non importava proprio niente delle nostre necessità.

Non mi chiesi allora perché nessuno dell’altro Pink-Black Block non veniva alla stazione (per aiutarci e portarci del cibo). Solo anni dopo udii che nel momento in cui venivamo arrestati, le persone che vennero alla ‘gabbia del Pride’ erano occupate, sedute nel tentativo di mettersi d’accordo su cosa fare.

Infine, i poliziotti cominciarono a lasciarci fare i turni per il bagno, prendendone due alla volta. Poco dopo, alla fine cedetter e ci lasciarono stare insieme per gli arresti e gli interrogatori (ma loro presero solo cinque dei nostri, e solo tra le persone che passavano da maschio). Nel frattempo, ci spostammo dall’interno dell’autobus al cortile della stazione di polizia, dove ci sedemmo all’ombra. Quando alcuni amici arrivarono con cibo ed acqua (che ci passarono attraverso le sbarre del cortile), noi eravamo quasi all’estasi. Finimmo tutto il cibo in 10 minuti. Dopo essere rimasti seduti un po’ più a lungo, decidemmo di improvvisare un corso di autodifesa, in cui uno dei partecipanti ci insegnava come evitare l’arresto (speravamo che i pulotti apprezzassero l’ironia). La nostra lezione fu interrotta prima della fine, dacché la polizia decise di lasciarci andare via tutti.

Il sole tramontava, e noi camminammo verso il centro cittadino. Era un venerdì, e quelli di noi che venivano da Tel Aviv avevano perso l’ultimo autobus [Nota 17]. Ci fermammo per alcuni minuti sull’orlo di un dirupo, osservando Gerusalemme immersa nella luce dorata del tramonto. Sotto di noi, come un serpente di cemento, giaceva il muro di separazione, che divide Gerusalemme in porzioni ebraica e palestinese, imprigionando quelli dalla parte della Palestina. Ricordo di aver guardato quel muro – allora relativamente nuovo – e di essermi sentito del tutto disperata. [segue]

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