sabato 27 luglio 2013

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[precede] etnica commessi ai danni dei palestinesi, così creando con successo una falsa immagine d'Israele come di un paese "liberale progressista occidentale", un faro di luce Bianca nella 'tenebra' del Medio Oriente. Così spuntò un nuovo tipo di propaganda - che si concentra sui limitati diritti dati ai (soli) gay e lesbiche ebrei in Israele, passando sopra alla grave oppressione compiuta dal governo israeliano contro i queer palestinesi (e tutto il popolo palestinese) e spazzando sotto il tappeto ogni voce di violenza anti-LGBTQ ed oppressione in Israele contro i queer ebrei. Ed il 2009 era l'anno in cui prese l'abbrivio il metodo del pinkwashing.

Il 2009 era il 100° anniversario della fondazione di Tel Aviv da parte di coloni ashkenaziti [Nota 38] su terra palestinese (compresa la città palestinese di Giaffa). L'intero anno fu marcato da varie celebrazioni organizzate dal Comune, che aveva inoltre rivendicato il corteo del Pride come parte della sua campagna di celebrazioni colonialistiche, dandole il titolo di "100 ragioni di orgoglio" (ovviamente, un titolo che neppure la parte più assimilazionista della comunità avrebbe  scelto). Il Comune impose il messaggio con l'aiuto della ricca azienda sponsorizzatrice responsabile della stampa degli striscioni - sotto il logo di ogni gruppo, era scritto lo slogan-riferimento "Una ragione d'orgoglo". Sfortunatamente, questo era anche il messaggio sullo striscione del nostro blocco bi.

Partecipare al mio primo incontro prepride al centro LGBT, organizzato dal rappresentante del Comune, fu per me un'esperienza alquanto negativa. Ero arrivata per vedere una stanza piena di gente proveniente dalle varie organizzazioni LGBTQ nella comunità, e guardare le facce di chi deteneva il potere. Di forse 40 persone (o più) che erano nella stanza, ero l'unica bisessuale dichiarata, una dei due transgender dichiarati nella stanza, una dei tre Mizrahi nella stanza, ed una delle dieci persone che si identificavano come donne. Per legare tutto questo insieme, ero certamente l'unica persona presente femmina, mizrahi, genderqueer bisessuale. Ognuno di questi fattori mi avrebbe messo in uno status ed un potere inferiore, in una stanza piena di uomini cis gay ashkenaziti - tutti questi messi insieme avevano fatto di me una delle persone più emarginate della stanza. Non lo scrivo per lamentarmene o per fare la vittima, ma per mettere in evidenza la struttura di potere all'interno della comunità. Il più delle volte la comunità è retta e rappresentata da persone che sono benefattori ["benefactors"; probabilmente voleva dire "beneficiaries = beneficiari"] di un privilegio nella società. Quelli che hanno il potere nella comunità LGBTQ sono gli stessi che lo avrebbero nella società 'generale' se non fosse per la loro unica deviazione dallo standard - la loro omosessualtà. Perciò l'agenda che viene spesso presentata come l'agenda "LGBTQ", o la lotta "LGBTQ" per i diritti, riflette invece gli interessi di questo ristretto gruppo di persone, per le quali l'unica barriera che impedisce loro di vivere le loro vite normali e privilegiate è la loro impossibilità di sposarsi o di sfruttare legalmente i corpi delle donne brune [fino a poco tempo fa, soprattutto dell'India - Israele consente la genitorialità surrogata, ma non agli omosessuali, che perciò vanno all'estero a realizzare il loro sogno] e povere per generare figli ed allevare famiglie normative (ovvero, "surrogazione" ed "adozione"). Certo, quando hai cibo nel piatto e la pancia piena, puoi anche preoccuparti di 'cose più importanti'. [segue]

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